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Ottobre 1956: la rivoluzione ungherese, il sangue, Togliatti e la spaccatura nel Pci

(di Achille Sammartano)

Quello di seguito narrato è il racconto di una storia nella quale, come spesso accade, le decisioni di pochi sanciscono la morte di tanti. Il peso della libertà affonda, ieri come oggi, nelle fosse delle bombe.

Con la morte di Stalin, avvenuta nel 1953, alcuni paesi dell’Europa comunista avevano iniziato a ribellarsi all’URSS. Dopo la Germania dell’Est e la Polonia, il 23 ottobre 1956 fu la volta dell’Ungheria.

Il pomeriggio del 23 ottobre 1956 in Ungheria esplose una rivoluzione popolare che difficilmente può trovare giustificazione nella volontà di correggere un percorso politico. Appare chiaro che l’intenzione era quella di abbattere un sistema oppressivo retto soltanto dal sostegno delle truppe sovietiche cui il Partito Comunista ungherese si appoggiava per mantenere il controllo.

Va chiarito che ciò che stava accadendo nel paese non è classificabile come una semplice manifestazione di piazza, ma fu una vera e propria rivolta di un popolo che non poteva più sopportare le angherie del c.d. “regime di democrazia popolare”.

Interessante è notare come il Partito Comunista Italiano abbia reagito a tale situazione quantomeno imbarazzante oltre che delicata.

In quei giorni nelle pagine de “L’Unità”, organi di stampa del Pci, vi fu una netta presa di posizione a favore dell’utilizzo delle armi per frenare le aspirazioni rivoluzionarie, sebbene da più parti si sottolinearono le evidenti carenze strutturale del Partito Comunista ungherese. Ad esempio Giancarlo Pajetta, in un articolo del 28 ottobre 1956, si dimostrò consapevole che tra i rivoltosi vi erano tantissimi giovani ungheresi e che questa non fosse altro che la reazione inevitabile ai gravi errori compiuti dal gruppo dirigente del partito.

Assolutamente convinti che la democrazia popolare andasse difesa versando il sangue del popolo furono esponenti di spicco del Pci come Gerardo Chiaramonte, Giorgio Napolitano e Palmiro Togliatti. Lo stesso Napolitano, infatti, ammetterà nel testo ” Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica” che qualsiasi posizione politica intrapresa dal Partito non toglie le responsabilità di tutto coloro i quali restarono sordi a quella battaglia.

Al cieco integralismo di buona parte dei comunisti italiani, risposero altri 101 intellettuali di sinistra ( tra i quali Elio Petri, Alberto Asor Rosa, Renzo De Felice ecc.) che scrissero il c.d. Manifesto dei 101, inviato il 20 ottobre 1956 al Comitato centrale del Pci. Si legge in questo documento: “è da deprecare che l’intervento militare sovietico sia stato richiesto e concesso, poichè esso contraddice ai principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali, viola il principio dell’autonomia degli Stati socialisti e gravemente compromette, dinanzi alla classe operaia e la società italiana, la politica perseguita dal Partito e l’opera che esso potrà dare per la realizzazione della via italiana al socialismo”.

Tale presa di posizione porterà Palmiro Togliatti a decidere di far celebrare dalla Direzione del Pci un “processo” a Di Vittorio, esponente della corrente contraria, per le posizioni assunte. Sarà lo stesso Togliatti a scrivere una lettera riservata alla segreteria del Pcus nel quale esortava le truppe sovietiche ad attaccare il popolo in rivolta per sedare le pretese rivoluzionarie. Victor Zaslavky nella sua opera “Lo stalinismo e la sinistra italiana” ha ben evidenziato l’incidenza avuta dalla lettera di Togliatti nella decisione per secondo intervento militare assunta dal vertice sovietico.

Il 4 novembre l’Armata Rossa entrò a Budapest con 200.000 uomini e 4.000 carri armati ed ebbe inizio la repressione sovietica. Incursioni aeree, bombardamenti e interventi di carri armati durarono fino al 9 novembre, quando i Consigli di studenti, lavoratori e intellettuali si arresero definitivamente.

Nella rivolta morirono quasi 3000 ungheresi, molti dei quali giovanissimi, e i feriti furono diverse migliaia.

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