“Passo un sacco di tempo a guardare facce e facce e le facce sembrano raccontarmi una storia”.
Kabul, Afghnistan 1992, un uomo con barbetta bianca e turbante dello stesso bianco, sta seduto con accanto un vecchio dagherrotipo, ai piedi una ciotolina vuota, in alto a destra delle foto di un giovane. L’uomo mi guarda con fierezza e accenna un lieve sorriso, quest’uomo dà inizio al mio straordinario viaggio attraverso gli “occhi” di uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Steve McCurry che di “occhi” e di visi ne sa qualcosa. Il suo nome è legato, infatti, a “Ragazza afgana”, presente in “Steve McCurry Icons” alla GAM di Palermo, mostra che raccoglie circa 100 tra i migliori scatti della sua vasta produzione. La celebre fotografia è stata scattata nel 1984, in un campo profughi di Peshawar, quando la ragazza aveva dodici anni e successivamente pubblicata sulla copertina della rivista National Geographic Magazine del numero di giugno 1985 che la rese famosa in tutto il mondo. Ritroviamo quella fierezza che è una caratteristica dei volti immortalati da McCurry, mista a paura. Gli occhi, di un verde intenso penetrano, feriscono, commuovono, raccontano la storia di un paese dilaniato dalla guerra, dove i bambini subiscono le violenze più atroci.
Circa otto milioni di loro sono sottoposti alle peggiori forme di lavoro minorile, la schiavitù, lo sfruttamento nel commercio sessuale, nel traffico di stupefacenti e l’arruolamento come bambini soldato. Steve McCurry è molto sensibile a queste tematiche e molti sono i bambini che ha “aspettato” e subito dopo “catturato”. “Se sai aspettare, la gente si dimenticherà della tua macchina fotografica e il loro animo più profondo si mostrerà“. Lì sta tutta la grandezza e la potenza di uno scatto: “Passo un sacco di tempo a guardare facce e facce e le facce sembrano raccontarmi una storia. Quando su un volto è scavata qualcosa dell’esperienza di vita, so che la foto che sto scattando rappresenta molto di più del semplice momento. So che qui c’è una storia”.
Il volto è un importante documento che si rivela solo a chi sa accostarsi con delicatezza, sapienza e nobiltà di animo, maestria e precisione tecnica necessari per l’utilizzo del mezzo fotografico.
Rughe su un visino giovane, quello di un bambino soldato, che mostra il corpo fasciato di proiettili e dietro lo sfondo di sacchi di juta, una mitragliatrice. “In Afghanistan ogni scatto andava scelto con cura. La cosa che mi colpisce dei teatri di guerra non sono tanto i disastri materiali della guerra, ma piuttosto quello che la guerra produce sul volto della gente, sul loro modo di vivere, sull’essenza stessa di uomo costretto a nascondersi, a fuggire, a morire. La maggior parte delle mie immagini sono radicate nelle persone”.
Da non dimenticare che McCurry è in primis un fotoreporter, ha lavorato in luoghi devastati dalla guerra e in altri molto particolari, come la Cambogia, Beirut, l’Iraq, il Kuwait, lo Yemen, Tibet e documentato la Guerra del Golfo. E’ stato insignito del Premio Robert Capa, premio importantissimo a livello mondiale, per il coraggio e per la capacità di testimonianza.
McCurry instaura un forte legame con il soggetto fotografato ed è percepibile, un affetto che lo ha spinto 17 anni dopo a cercare e a scoprire l’identità della ragazza immortalata nel 1984. Il suo nome è Sharbat Gula, è stata ritrovata dopo alcuni mesi di ricerche, indentificata grazie alla tecnica della ricognizione dell’iride e fotografata nuovamente.
Il viaggio prosegue, Kashmir 1995, il nomade Kuchi, avvolto nel turbante verde-azzurro, dagli occhi blu brillante, dalla barba rosso Tiziano, è simbolo della dignità umana che Steve McCurry ha desiderato immortalare.
Yemen 1997, due occhi castani squarciano il nero del burka, provocando un occhiello, una profonda fessura, man mano che ci si allontana dagli occhi, l’immagine si fa sempre più sfocata.
McCurry ha voluto cogliere quegli “occhi” che sono il centro di tutto, sfocando il resto, mostrando la condizione femminile di quel paese. Le donne, insieme ai bambini, sono i suoi soggetti preferiti e in alcune foto si diverte a giocare con le forme e i colori.
Dopo “Anthologia” di Letizia Battaglia, la città di Palermo, emoziona con un’altra grande mostra dedicata alla fotografia d’autore.
“Steve McCurry Icons” è un viaggio che permette di attraversare le frontiere, di conoscere mondi dove la meraviglia del paesaggio incontra l’espressione di un volto, quegli “occhi” trafiggono come lama affilata.
Gianna Panicola