domenica, Novembre 17, 2024
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La scrittrice disabile milanese Barbara Garlaschelli racconta la sua dolorosa vicenda nel libro: “Non volevo morire vergine”

Il corpo. Estensione, materia, necessità, bisogno, fragilità. E nello stesso tempo forza. Tanta forza, forza disumana, impensabile, sconvolgente, sorprendente anche per chi la prova e non sapeva di averne così tanta. Barbara Garlaschelli è donna sensuale dal volto altero e intenso, ed è una scrittrice. Un tuffo da uno scoglio nell’acqua bassa, a quindici anni, le ha procurato una lesione al midollo spinale e da allora è su una sedia a rotelle. È tetraplegica. Bellissima, ma tetraplegica. Prima dell’incidente era una ragazzona con un corpo bellissimo ma quello che le è successo le ha sconvolto la vita, cambiandogliela, segnandogliela, sconvolgendole l’esistenza per sempre. Tutto cambia in un attimo e ciò che diventiamo non sempre ci piace. E se il corpo cambia, si immobilizza, appassisce, va in letargo, la testa no. La testa continua a sentire, pensare ed è veloce il pensiero di chi non ha altro da fare che pensare, di chi altro purtroppo non può fare. E si vorrebbe fuggire da quella malattia, dalla trappola che non avevamo previsto che non comprendiamo fino in fondo.

Barbara Garlaschelli, milanese di nascita, sciura come diremmo più semplicemente, dotata di una formidabile ironia, ha scritto un libro sulla sua condizione dal titolo “Non volevo morire vergine” e non è da tutti avere il coraggio di mettersi a nudo, di spogliarsi di quel pudore restio a parlare di sé, della propria vita, dei propri desideri, della sensualità negata, delle speranze sopite, tradite, calpestate.
Vulcanica, intelligente, sensuale. A guardarti sei o sembri tutto questo?
«Ebbene sì, sono tutto questo. Anni e anni di allenamento ci sono voluti per diventare tutto quello che hai appena detto. Vulcanica lo sono sempre stata ma in realtà di natura, sarei pigra eppure, paradossalmente, vista la mia condizione, non riesco a star ferma. Sembra un paradosso ma è così. Metto in piedi tante iniziative e poi mi pento perché mi stancano troppo».

Barbara Garlaschelli e il marito Giampaolo Poli

Sei sempre stata così impetuosa?
«Non ero così prima, anzi mi vergognavo. Ero una che si faceva sentire ma non ero così sfacciata come adesso. Con l’età sono cambiata. L‘età mi ha liberata. Adesso sono totalmente disinibita e non c’è niente e nessuno che mi possa far tornare indietro o inibire. è stato faticoso diventare la persona che sono, per questo non ci rinuncio».
Ti va di parlare dell’incidente? Come sono stati i primi tempi?
«I primi tempi sono stati durissimi perchè non si trattava soltanto di ripartire da zero ma ripartire da una condizione a me sconosciuta e non gradevole. Essere paralizzati così come mi sono ritrovata, con una lesione che compromette anche gli arti superiori, ragion per cui non riesco a stringere le dita delle mani, è sconvolgente. Ho dovuto reimparare a scrivere e abituarmi a chiedere aiuto per fare qualunque cosa. Mi vergognavo e mi sentivo sempre a disagio. L’istinto primario era quello di rintanarmi in casa. Mio padre e mia madre non me l’hanno permesso. Mi hanno impedito di chiudermi in me stessa e anche in casa. I primi anni quando dovevo andare in un luogo pubblico non mi vergognavo di essere in carrozzella ma mi preoccupavo del fatto che potesse anche essere non accessibile. E tutto mi sembrava insormontabile. L’istinto mi diceva di rinunciare. E invece, soprattutto mio padre, non mi consentiva di rinunciare. Mia madre era più protettiva, più accondiscendente. Mio padre era terrorizzato dal fatto che io potessi rinunciare alla vita. E mi buttava nelle situazioni perché non perdessi le occasioni e vivessi, superando soprattutto le ritrosie, le paure. Ricordo la volta in cui mi portò in spiaggia, luogo che detestavo dopo quello che mi era capitato, e mi mise il costume da bagno perché io sentissi quello che rischiavo di dimenticare. All’inizio mi dispiacque ma poi alla fine, ne ero contenta».
Cosa hai imparato da questo?
«Sono stata forte lo ammetto. Adesso tutto è più semplice. Ci sono davvero pochissime cose che mi frenano. C’è più che altro la stanchezza che sento molto più di prima. Ho imparato a essere forte e non è semplice, non è così scontato. Io mi voglio molto bene. Ho una considerazione di me molto alta. Ho imparato a perdonarmi. Sono sempre stata molto severa con me stessa, forse anche troppo. Da una parte è stato un bene perché aiuta a non perdere di vista la realtà, ad avere la giusta misura delle cose».
Come sta andando la presentazione del libro?
«Ho molte date in tutta Italia e se ci penso sono incredula. Io non mi risparmio e questo è faticoso. Poi però penso a quando sarò più vecchia e allora sarà tutto ancora più difficile e mi convinco che è meglio approfittarne adesso. Mi piace stare in mezzo alla gente. Se mi invitano io vado. Se mi scrivono io rispondo. Concedo ai miei lettori me stessa e il mio tempo. Mi sembra il minimo per mostrare la mia riconoscenza. Mi sembra naturale. Io per come sono fatta, ringrazio. Non è obbligatorio per uno scrittore andare in giro ma se va, trovo giusto che si comporti come se ti stesse facendo un favore».
Perché hai scritto “Non volevo morire vergine”? L’argomento è forte. Il sesso, il desiderio, il bisogno di sentirsi desiderata, di suscitare interesse negli uomini, infrangendo un tabù dato che sono argomenti considerati “lontani” dalla condizione del disabile. Dove hai trovato la forza?
«Ci ho pensato su. È una parte delicata della mia vita. E non volevo scrivere un romanzo con una tetraplegica protagonista e narrarla in terza persona e non volevo scrivere un saggio perché non volevo generalizzare perché ogni persona è un mondo. Io volevo sentirmi libera di fare affermazioni e potere rispondere personalmente di quanto detto perché l’avevo vissuto veramente e lo vivo anche adesso. Non sto dicendo che sia così per tutti, che tutti provino la stessa cosa e allo stesso modo, ma di certo è quello che è accaduto a me. Del sesso e della disabilità ne ho voluto parlare perché è un argomento tabù. Ho conosciuto una ragazza tetraplegica di Napoli. Mi ha detto che a lei il problema di essere guardata o desiderata nemmeno si pone. La guardano come fosse un marziano e non certo come una donna. con la disabilità non si perde soltanto la mobilità ma anche la condizione di essere umano, donna o uomo capaci ancora di provare emozioni, desiderio, amore. Occorre pertanto parlarne perché il silenzio uccide. Stare in silenzio è come essere morti».
Barbara, hai usato come al solito, l’efficace arma dell’ironia?
«Non riesco a resistere alle battute. Io amo scherzare sempre, anche sugli argomenti più seri e drammatici. E per prima prendo in giro me stessa. Il mio primo bersaglio sono io. Chi non sa ridere non è una persona seria».
Scrivi da trenta anni, sei famosa e affermata. Come vivi questa condizione?
«Come scrittrice non mi sento mai arrivata. Mi sento in prova, sempre. Ogni volta è come se fosse sempe la prima volta. Ho certezza della mia serietà, del mio impegno, del mio metodo di lavoro ma sul risultato non do nulla per scontato. Giampaolo mi dice che sono “famosa” ma io non ho percezione di questo. Quando la gente mi riconosce, io mi stupisco sempre ed è bello questo».
Quindici anni un’età dove tutto deve ancora succedere. A te è capitato di trasformarti in una sirena. Ti ci ritrovi in questa definizione?
«Sì, mi ci ritrovo moltissimo. Uno dei miei libri si intitola” Sirena, mezzo pesante in movimento”. Mi sento una sirena. Sono sensuale, misteriosa, incantatrice, affascinante. Come mi vedono gli altri non lo so, ma io di certo, mi vedo così. Ho lavorato molto per essere così, per diventare la donna che avevo in testa».
Com’è la tua realtà, Barbara?
«Sto leggendo i diari di Sylvia Plath e sono rimasta molto colpita da una frase: per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. È tutto così profondamente vero. Noi siamo in continua dissoluzione. Ci reinventiamo tutti i giorni, tutti i momenti».
Non tutti ne sono capaci, però.
«È vero, ma ci sono cose che accadono nostro malgrado. La vita scorre. Si può essere piantati come un ciocco però la vita scorre lo stesso. E le cose accadono comunque. Il corpo cambia e la cosa più spaventosa che possa capitare è non cambiare anche nella testa. La vita è equilibrio in ciò che equilibrio non ha. Io mi sento in bilico perché tutto lo è e restarci è da veri forti».

Barbara Garlaschelli e il marito Giampaolo Poli

Per dirla con Seneca dunque, il vero segreto è “vivere stabili nell’instabile”?
«È proprio così. E’ illusorio non cambiare mai. Tutto cambia e bisogna adattarsi e restare in equilibrio nel cambiamento».
Parlami per favore della famosa lettera che ti scrisse tuo padre all’indomani dell’incidente.
«È per me un vero e proprio manifesto. Ho avuto la fortuna di avere genitori forti e attrezzati culturalmente e mi hanno aiutata. Mio padre scrisse quella lettera nell’82 mentre ero a Hildeberg e facevo riabilitazione. Tu avrai dalla vita tutto quello che tu vorrai avere e se non lo avrai è perché non lo hai voluto. La ricorderò sempre questa frase. Mio padre credeva nella volontà delle persone. Credo che il suo modo di essere mi abbia salvato la vita. Doveva essere “duro” per insegnarmi a contare su di me. Dopo l’incidente ero sopraffatta. Non avevo più le coordinate, i punti di riferimento. E potevo non ritrovarli più. Ho pianto molto. All’inizio non facevo altro che questo, anzi. Quando ho dovuto reimparare a stare seduta è stato faticoso e volevo essere lasciata in pace ma i miei genitori mi hanno dato la forza per non abbattermi. Chissà quante volte hanno pensato al momento in cui non ci sarebbero stati più e alla mia solitudine. Quando mio padre è morto, volevo morire anch’io, ho desiderato questo anche se avevo già Giampaolo e il suo meraviglioso amore».
Non tutti i genitori però riescono a fare questo, anzi, molti falliscono in questo ruolo.
«Lo vedo, e falliscono con figli che non hanno veri problemi, non sono cioè né disabili, né ammalati. Falliscono perché sono fragili, deboli. E dire sì è più facile che dire no. Se dici no, devi spiegarlo. Sono quello che sono grazie ai miei genitori che mi hanno sostenuta».
E poi è arrivato anche l’amore, Barbara.
«Pensavo che nessun uomo si sarebbe mai interessato a me anche se dentro di me, nella parte più profonda di me non ho mai smesso di crederci».
Giampaolo è un nome che hai menzionato un paio di volte, chi è quest’uomo fortunato?
«È mio marito, il Poli come lo chiamo di solito. è un uomo bellissimo che mi aiuta e mi sostiene in tutto. Il giorno in cui ci siamo incontrati, è scattata la scintilla, il classico colpo di fulmine che esiste, io e lui ne siamo la prova».
E se lo dice Barbara Garlaschelli c’è da crederle. Lei vive, sente, scrive, pensa con la profondità e la purezza delle persone vere. Barbara Garlaschelli sarà in Sicilia il prossimo giugno e presenterà il suo libro.

Tiziana Sferruggia

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