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«La forza del perdono trasforma il dolore in amore»: Gemma Calabresi Milite, quando la giustizia conduce alla pace

La vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 in un attentato terroristico ad opera dei militanti del movimento di estrema sinistra Lotta Continua, ha ripercorso ieri presso il Palazzo della Cultura di Catania, partendo dal suo libro “La crepa e la luce”, il cammino di fede che l’ha portata a maturare compassione e vicinanza per i responsabili dell’omicidio. L’incontro, largamente partecipato, è stato l’ultimo appuntamento della serie di dibattiti dal titolo “Oltre la pena. Incontrare persone. Ricomporre relazioni”, promossa dalla Fondazione Francesco Ventorino, dall’Arcidiocesi di Catania, dal Centro Culturale di Catania e dalla Fondazione Sant’Agata.

«Che diritto avevo io allora di relegare per tutta la vita coloro che avevano ucciso mio marito al loro gesto peggiore?». È con questa domanda carica di significato che Gemma Calabresi Milite, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 in un agguato terroristico perpetrato dai militanti del movimento di estrema sinistra Lotta Continua, ha restituito agli ascoltatori presenti ieri (26 febbraio) presso il Palazzo della Cultura di Catania la profondità del percorso esistenziale che l’ha condotta al perdono di coloro che hanno irrimediabilmente sconvolto la sua vita. La scrittrice, infatti, è stata protagonista dell’incontro La crepa e la luce, titolo che richiama quello del libro pubblicato nel 2022 da Mondadori in cui la donna ha ripercorso gli ultimi cinquant’anni della sua vita. L’evento, moderato dalla presidente del Centro Culturale di Catania Anna Sortino, ha anche rappresentato la conclusione della serie di eventi che ha alimentato il dibattito sulla giustizia riparativa Oltre la pena. Incontrare persone. Ricomporre relazioni, promossa dalla Fondazione Francesco Ventorino, dall’Arcidiocesi di Catania, dal Centro Culturale di Catania e dalla Fondazione Sant’Agata. «Il perdono – ha proseguito – non è appannaggio della Chiesa, prima o poi tutti avremo qualcuno da perdonare o dovremo essere perdonati e anche chi non crede può farlo, con la propria umanità». Un’umanità spesso latente, affogata dalla rabbia e dal rimorso, che tuttavia può essere riscoperta anche negli istanti più imprevedibili: «Ho avuto diversi segni che mi hanno indotta a perdonare: il primo è stato sul divano di casa mia. Quando mio marito fu ucciso sotto casa non sentii gli spari, i suoi colleghi accorsero a casa mia, ma l’unico che ebbe il coraggio di sussurrarmi ciò che era accaduto fu il mio parroco, Don Sandro. Disperata, mi accasciai sul divano senza percepire nulla intorno a me, solo un’assurda pace interiore e una grande forza, come se qualcuno fosse venuto in mio soccorso. Era Dio, che mi donò la generosità di chiedere un Ave Maria per la famiglia dell’assassino, che avrebbe sofferto di un dolore più grande del mio». La forza di Gemma Calabresi Milite è persino andata oltre il perdono. Ha saputo restituire dignità a coloro che si erano macchiati dell’omicidio del marito: «In una seduta dell’infinito processo, che ho vissuto come un calvario, ho visto un imputato andare da suo figlio e abbracciarlo prima di mandarlo fuori dall’aula: fu allora che capii che quell’uomo era un padre affettuoso tanto quanto me da madre. Ho capito il senso di quella scena anni dopo, insegnando religione a scuola: un bambino mi chiese perché dei morti si ricordano solo le buone azioni e io risposi che avviene perché bisogna trasmettere solo l’esempio positivo lasciato. Questi non erano solo assassini, come li avevo sempre definiti, ma erano anche persone, ariti, padri, amici. Sono i terroristi che spersonalizzano i loro nemici mostrandoli alla massa solo come colpevoli. Per questo esorto sempre i giovani a non fare parte del gregge, ma a mantenere un pensiero libero e individuale»

Un’esortazione da estendere anche a chi, ogni giorno, si confronta con il difficile mestiere dell’essere genitori: «Donate sempre con amore ai vostri figli educazione e rettitudine, anche quando sembra che loro non vi ascoltino: prima o poi ne avrete un ritorno, come lo ha avuto mia madre con me». Nell’affermare ciò la donna allude a un esatto episodio in cui la spiritualità di sua madre le indicò la strada: «Mia mamma mi suggerì come necrologio per mio marito la frase di Gesù sulla Croce “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Io ho accettato perché pensavo fosse giunto il momento di spezzare quella catena di odio, ma tra uno scivolone e l’altro ci ho messo una vita a perdonare. Il perdono è un dono non sempre richiesto che si fa con il cuore, non con la testa; non è debolezza, ma forza che rende liberi e in pace con Dio e l’umanità».  Perché la pace, una volta raggiunta, è più forte di ogni ferita che avvelena l’anima: «Per anni ho desiderato infiltrarmi tra i brigadisti, trovare gli assassini di mio marito e ucciderli, ma mi vergognavo ad ammetterlo. Se sono riuscita a perdonarli è grazie a tutti coloro che mi hanno sostenuta, grazie allo Stato che ha fatto giustizia e ottenuto verità. Ho scritto questo libro come ringraziamento, per condividere con voi il mio percorso e far capire che dietro un dolore lancinante la vita può ancora riservare qualcosa di bello, per esortarvi ad aprirvi nella sofferenza e a riempirla con la fede e non con l’odio». 

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