Di produrre i vaccini contro il Covid anche in Italia si parla da mesi. Ora l’ipotesi approda sul tavolo del Mise dove giovedì ci sarà un incontro tra il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti e il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi. Spiegare la complessità dell’iter di produzione sarà uno dei passaggi chiave previsto dal presidente di Farmindustria.
“Faremo il punto della situazione sulle possibilità di dare una mano”, ha detto Scaccabarozzi, “diremo al ministro come si produce un vaccino e quali sono i tempi: un vaccino è un prodotto vivo, non di sintesi, va trattato in maniera particolare. Deve avere una bioreazione dentro una macchina che si chiama bioreattore. Insomma, non è che si schiaccia un bottone ed esce la fiala. Da quando si inizia una produzione passano 4-6 mesi”. E il nodo della produzione infatti sono proprio i bioreattori. Lo ha sottolineato anche Rino Rappuoli, padre di tanti vaccini di nuova generazione, coordinatore della ricerca sugli anticorpi monoclonali di Toscana Life Sciences e direttore scientifico di Gsk. Per produrre i vaccini anti-Covid in Italia, “bisogna intanto sapere che cosa si vuole produrre. Ci sono due fasi – ha spiegato – la prima riguarda la produzione della sostanza, il vaccino stesso: cioè produco l’RNA, o la proteina, il virus dello scimpanzé, a seconda dei vaccini. Per farlo ci vogliono i bioreattori ma in Italia non ci sono gli impianti”. E ha chiarito, “solo Gsk li ha, ma non per il vaccino anti-Covid, bensì per quello contro la meningite che è batterico. Reithera ce l’ha ma non credo per fare milioni di dosi. La seconda fase riguarda l’infialamento e da noi molte aziende sono in grado di farlo”.
“Se si pensasse per esempio di adattare i bioreattori di Gsk per la produzione di vaccini anti-Covid, non si potrebbe immaginare un’operazione in quattro e quattr’otto. Tra l’altro questo significherebbe smettere di produrre il vaccino contro la meningite”. Tutto questo però non significa che non si possa pensare di metter su in Italia degli impianti con bioreattori: “Bisogna però tenere conto che serve lo standard e l’approvazione prima dell’Ema e poi dell’Aifa – ha specificato ancora Rappuoli – e i tempi non sarebbero brevi”. “Ma ci potrebbe essere un’altra via: il trasferimento in Italia della tecnologia già sviluppata da parte di Pfizer o Astrazeneca per esempio, e in questo caso ci vorrebbero dai 7-8 mesi a un anno. Mentre partendo da zero con gli impianti, per arrivare alla produzione si impiegherebbero 2 anni”. Tempi troppo lunghi. Intanto l’aggiornamento quotidiano sul numero di vaccini somministrati in Italia registra che le dosi inoculate hanno superato i 3 milioni e mezzo. Alle 15 la cifra era di 3.537.975. I vaccinati con due dosi, compreso il richiamo, sono ora 1.332.163.
Delle oltre 3,5 milioni di dosi somministrate, 2.210.876 sono andate a personale sanitario e sociosanitario, 638.483 a personale non sanitario, 367.054 a ospiti delle Rsa, 261.444 a over 80, 24.902 a membri delle forze armate, 35.216 al personale scolastico. La maggior parte delle dosi impiegate, secondo dati del ministero della Salute, sono del vaccino Pfizer-Biontech (3.334.254), quindi Astrazeneca (110.016) e Moderna (93.705). Intanto molto malumore è stato espresso per quello che il presidente e Ad di Irbm Pomezia Piero Di Lorenzo ha definito “un tiro al vaccino insopportabile”: “Non si giustifica questo accanimento sul vaccino Astrazeneca. Ho il sospetto che dia fastidio perché costa troppo poco”. E ha assicurato: “Entro la fine di marzo ci sarà la consegna di 5 milioni di dosi. Nel secondo trimestre dell’anno, il 99% delle dosi sarà quello promesso e ci sarà anche un recupero”. In Francia invece Sanofi, il marchio che ha dovuto ritardare la messa a punto del proprio vaccino, produrrà quello della concorrente Usa Johnson & Johnson. E nel mentre ha annunciato per il suo prodotto il lancio di un nuovo test clinico di fase 2 su volontari.