Fino al 31 marzo 2021 sono bloccati i licenziamenti ed è prevista la cassa Covid gratuita per le imprese. Questo il frutto dell’intesa raggiunta il 30 ottobre 2020 dal premier Conte con sindacati e Confindustria.
Si tratta di provvedimenti che incidono su diritti costituzionalmente garantiti e, per certi versi, contrapposti, ossia, la libertà d’iniziativa economica privata, da un lato, il diritto al lavoro, dall’altro; il tutto in uno scenario economico reso sempre più grave dall’emergenza epidemiologica in atto.
Per quanto riguarda in particolare il divieto di licenziamento, esso era stato già introdotto a marzo dal Decreto Cura Italia, il quale prevedeva, per la durata di cinque mesi:
- il divieto di licenziamento collettivo – cioè quello attuato da imprese che occupino più di quindici dipendenti e che, a causa di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni nell’ambito di una stessa provincia, nonché quello attuato da imprese ammesse al trattamento straordinario di integrazione salariale, che si rendono conto di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative;
- il divieto di licenziamento pergiustificato motivo oggettivo, indipendentementedal numero di dipendenti impiegati, cioè di quel licenziamento legato a ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Successivamente, il Decreto Agosto ha prorogato tali divieti e allo stesso tempo ne ha attenuato la rigidità, prevedendo un esonero per i datori di lavoro che avessero integralmente fruito della Cassa Integrazione prevista per l’emergenza Covid oppure dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali.
Inoltre, il suddetto decreto ha introdotto una serie di ipotesi in cui il datore può legittimamente licenziare, a prescindere dall’integrale fruizione dei trattamenti di integrazione salariale o dell’esonero contributivo di cui si è detto, in particolare nei seguenti casi:
- licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività, con messa in liquidazione della società senza alcuna continuazione, anche parziale, dell’attività;
- ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo;
- licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.
A prescindere, sono stati sempre esclusi dal divieto di licenziamento sopra illustrato:
- il licenziamento disciplinare;
- il licenziamento per raggiungimento del limite massimo d’età per la fruizione della pensione di vecchiaia;
- il licenziamento per superamento del periodo di comporto – ossia il periodo di tempo durante il quale un lavoratore, assente per malattia o infortunio, conserva il proprio diritto al mantenimento del posto di lavoro e superato il quale, se non rientra a lavoro, può essere licenziato;
- il licenziamento dei dirigenti;
- il licenziamento durante o al termine del periodo di prova: entrambe le parti, infatti, sia alla scadenza del periodo di prova pattuito che durante il medesimo, possono recedere liberamente;
- il licenziamento dei collaboratori domestici che, in virtù del vincolo fiduciario con il datore di lavoro, è soggetto al regime di libera recidibilità;
- la cessazione del rapporto di lavoro dei collaboratori coordinati e continuativi, in quanto l’ambito di applicazione del divieto in esame è limitato ai soli rapporti di lavoro subordinato;
- la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo.
In materia è poi intervenuto ilDecreto Ristori, prorogando il divieto di licenziamenti al 31 gennaio 2021, ma, soprattutto, rendendolo applicabile a prescindere dall’utilizzo della cassa integrazione o dell’esonero contributivo cui lo aveva legato il Decreto Agosto, creando non pochi problemi interpretativi ed applicativi.
Da ultimo, il 30 ottobre 2020, all’esito di lunghe trattative con i sindacati, Conte ha annunciato che la proroga è estesa al 31 marzo 2021.
Arrivati a questo punto, non possiamo sapere se questa sarà davvero l’ultima proroga del divieto, che sembra perdere sempre più i caratteri di un rimedio ‘eccezionale’, ma è il caso di chiedersi cosa succeda se il datore di lavoro non rispetta tale divieto.
Il decreto Rilancio aveva in prima battuta introdotto la possibilità di revocare il recesso per il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo tra il 23 febbraio 2020 e il 17 marzo 2020, avesse proceduto a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. La revoca del licenziamento era possibile solo se poi si procedeva con la richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale. In tal caso, il rapporto di lavoro si intendeva ripristinato senza soluzione di continuità, né oneri o sanzioni per il datore di lavoro. Il Decreto Agosto ha esteso tale possibilità di revoca a qualunque licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nell’anno 2020, non solo tra febbraio e marzo 2020.
Qualora il datore di lavoro non revochi il licenziamento intimato, il recesso è nullo in quanto attivato in violazione di una norma di legge. In ogni caso, l’INPS ha chiarito che il lavoratore ha diritto comunque a percepire la NASpI, cioè l’indennità mensile di disoccupazione che spetta al lavoratore in caso di disoccupazione involontaria. Ciò ovviamente a condizione che il soggetto sia in possesso di tutti i requisiti, soggettivi e non, previsti dall’ordinamento per l’ottenimento di tale indennità.
In questi casi, però, l’INPS si riserva il diritto di richiedere indietro quanto pagato, nell’ipotesi in cui il lavoratore licenziato, a seguito di contenzioso giudiziale o stragiudiziale, dovesse essere reintegrato nel posto di lavoro.
Avv. Camilla Alabiso