Il mancato pagamento dello stipendio da parte del datore di lavoro è uno dei motivi che consentono al lavoratore di dimettersi per giusta causa, senza, quindi, dover dare il preavviso previsto dal contratto.
Tuttavia, per aversi “giusta causa” di dimissioni, non è sufficiente che non sia stata pagata una sola mensilità, ma, come sostenuto dalla giurisprudenza, è necessario che il mancato pagamento sia reiterato, cioè ripetuto nel tempo.
Il lavoratore che si dimette per giusta causa è equiparato sul piano giuridico a quello licenziato, quindi gli spettano le indennità che la legge o il contratto di lavoro riservano a quest’ultimo: l’indennità sostitutiva del preavviso da parte del datore di lavoro e l’indennità mensile di disoccupazione da parte dell’Inps (la cd. NASpI: Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego).
La domanda per la NASpI deve essere presentata telematicamente all’Inps nella sezione dedicata del relativo sito, ad essa va allegata la documentazione da cui risulti quantomeno la volontà del lavoratore di difendersi in giudizio nei confronti del datore di lavoro (ad esempio diffide o ricorsi per decreti ingiuntivi: vedi infra); il lavoratore, inoltre, si deve impegnare a comunicare all’Inps l’esito della controversia, perché, se dovesse risultare che non sussiste giusta causa di dimissioni, l’Inps dovrà procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione.
Ma quali sono gli strumenti che il lavoratore ha per tutelarsi nei confronti del datore di lavoro e provare a recuperare gli stipendi non pagati?
Un primo passo da fare è senz’altro il sollecito di pagamento. Si tratta di inviare al datore di lavoro, con raccomandata con avviso di ricevimento o pec, una lettera di diffida e messa in mora, con la quale gli si ordina di pagare le somme dovute entro un termine adeguato e lo si avverte che, in caso di mancato rispetto del termine, il contratto di lavoro sarà sciolto; con questa, che si chiama “intimazione ad adempiere”, si ottiene un ulteriore ed importante effetto, ossia “mettere in mora” il datore di lavoro che, così, oltre agli stipendi arretrati, dovrà pagare anche gli interessi.
In seconda battuta, in caso di mancata o inadeguata risposta del datore di lavoro, è il caso di passare alle vie giudiziali e chiedere al Tribunale un decreto ingiuntivo, ossia un provvedimento con cui il Giudice ordina al datore di lavoro di pagare le somme dovute entro quaranta giorni. In questo termine il datore di lavoro può anche opporsi al decreto dimostrando che la richiesta del lavoratore è infondata. Se non si oppone o se si accerta che l’opposizione è infondata, il decreto diventa esecutivo, il che significa che sulla base di esso si può procedere al pignoramento di eventuali beni del datore di lavoro. E’ bene precisare che in materia di lavoro i tempi sono spesso più brevi perché solitamente il decreto ingiuntivo viene chiesto sulla base delle buste paga che, in quanto documentazione sottoscritta dal debitore che prova il diritto fatto valere, consentono di ottenere immediatamente la provvisoria esecutività del decreto, senza dover aspettare i canonici quaranta giorni dalla notifica.
E se il datore di lavoro non ha consegnato le buste paga?
In questo caso, poiché tale consegna è un obbligo che la legge pone a carico del datore di lavoro, prevedendo anche delle sanzioni pecuniarie in caso di inosservanza, il lavoratore può fare valere il suo diritto chiedendo al Giudice, sulla base della lettera di assunzione o delle precedenti buste paga, un decreto ingiuntivo con cui ordini al datore di lavoro di consegnare le buste paga mancanti.
Ma cosa fare se, una volta ottenuto un decreto ingiuntivo esecutivo (o altro titolo esecutivo), il lavoratore non riesce a recuperare il suo credito perché il datore di lavoro non possiede beni o comunque non ne possiede abbastanza?
Nel nostro ordinamento è previsto il Fondo di Garanzia dell’Inps che assicura, a determinate condizioni, il pagamento del TFR (Trattamento di Fine Rapporto) e delle ultime tre mensilità.Al Fondo si può accedere sia che il datore di lavoro sia stato dichiarato fallito, o comunque assoggettato ad altra procedura concorsuale, sia in caso contrario.
Nel primo caso, è necessario che il lavoratore abbia presentato, tramite un avvocato, istanza di ammissione al passivo della procedura. Ovviamente, può essere lo stesso lavoratore a presentare istanza di fallimento del datore di lavoro, a patto che le somme dovute da quest’ultimo superino i 30.000,00 euro.
Nel caso, invece, di datore di lavoro non soggetto a procedure concorsuali, il lavoratore, per accedere al Fondo, dovrà dimostrare l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro a seguito dell’esecuzione forzata; egli, cioè, dovrà provare di aver tentato di realizzare il proprio credito in modo serio e adeguato ricercando, con la normale diligenza, i beni del datore di lavoro nei luoghi a lui ricollegabili. A tal fine, il lavoratore potrà allegare alla domanda di accesso al Fondo, ad esempio, il verbale di pignoramento mobiliare negativo, oppure potrà dimostrare l’impossibilità o l’inutilità del pignoramento immobiliare, allegando una dichiarazione sostitutiva di atto notorio dalla quale si evince che il datore di lavoro non risulta proprietario di beni immobili nei luoghi di nascita e di residenza o che è titolare di beni immobili già ipotecati per importi superiori al valore dei beni stessi.
La domanda al Fondo può essere presentata: online, nella sezione dedicata del sito Inps; telefonicamente al Contact Center, oppure tramite gli enti di patronato.
avv. Camilla Alabiso