È passato un anno da quella terribile notte in cui il maresciallo Silvio Mirarchi morì, colpito alla schiena mentre era appostato con un collega nei pressi di una serra utilizzata per la coltivazione della marjiuana nelle campagne tra le contrade Ciavolo e Ventrischi. Dal buco nell’aorta perdeva sangue a fiotti inarrestabili e le sue condizioni apparvero subito disperate. Era il 31 maggio del 2016 e da questa fatidica data, le indagini non si sono mai fermate per accertare la verità. Il maresciallo venne soccorso e trasportato subito all’ospedale Paolo Borsellino di Marsala da dove venne trasferito in elicottero a Palermo per essere sottoposto a un intervento chirurgico ma morì per le gravi lesioni riportate. Partirono le indagini, a tappeto, e venne scandagliato palmo a palmo un territorio esteso e solitario che si estende nelle immense campagne marsalesi. La serra venne sequestrata e la prima ipotesi formulata dagli investigatori fu che il maresciallo fosse stato scambiato dai guardiani della serra per un ladro. Nella stessa zona era stato ritrovato appena una settimana prima, il 25 maggio, il corpo di un romeno ucciso e poi bruciato e qualche giorno prima era stato ferito, sempre nella stessa zona, un uomo colpito con una o più fucilate mentre tentava di rubare piante di marijuana da una piantagione, scoperta dai carabinieri proprio dopo il ferimento. Quello che accadde dopo è storia. Vennero sequestrate seimila piante di marjiuana e scoperte numerose serre dislocate in varie zone della città. Al funerale del maresciallo partecipò mezza città e venne proclamato il lutto cittadino. La vedova e i due figli di Mirarchi ebbero il conforto di quel bagno di folla e delle autorità indignate e commosse che promisero giustizia. Con Mirarchi, quella maledetta sera, c’era un collega rimasto miracolosamente illeso grazie al repentino movimento con cui si mise al riparo. Si ipotizzò che a sparare ad altezza d’uomo contro i militari fossero in due e a 23 giorni dall’efferato agguato si aprì uno spiraglio investigativo che portò all’arresto di Nicola Girgenti, marsalese, 45 anni, incensurato e bracciante agricolo. L’uomo era impiegato come vivaista presso una ditta di piante ornamentali e, pare, anche ex socio del suo stesso datore di lavoro di un’altra azienda fallita. Venne arrestato anche il pregiudicato Francesco D’Arrigo, ritenuto dagli investigatori il coltivatore della marjiuana nella serra di contrada Ventrischi. Girgenti fornì fin da subito una descrizione dei suoi movimenti precedenti e successivi al reato, secondo gli investigatori non corrispondenti a verità. I riscontri dei carabinieri, infatti, dimostrarono che non era rimasto a casa tutta la sera come dichiarato e di essersi addormentato intorno alle 22.00. I tabulati telefonici dimostrarono che era sveglio e che la sua utenza agganciava la cella compatibile con il luogo dell’omicidio. Inoltre, la sua autovettura venne immortalata dalle due telecamere a circuito chiuso lungo la via di fuga dal luogo della sparatoria. Girgenti venne sottoposto anche alla prova dello stub, il tampone utile per rilevare le tracce di polvere da sparo. L’esame effettuato dal RIS di Messina diede esito positivo. Numerose tracce di polvere da sparo vennero rilevate sugli indumenti del bracciante agricolo sequestrati prima del lavaggio. I carabinieri accertarono che Girgenti sarebbe stato socio della serra ma anche infedele compagno dato che, approfittando dell’assenza di D’Arrigo che si trovava a Partinico, avrebbe trafugato, insieme ad altri complici, la marjiuana.
Nell’inchiesta finì anche Fabrizio Messina Denaro, detto Elio, un castelvetranese di 50 anni, pregiudicato, che sarebbe stato socio di Girgenti nella realizzazione della piantagione di cannabis, anzi promotore di quella lucrosa attività criminale. Le cose però si erano complicate, dato che Girgenti reclamava alcune somme di denaro e che per questo, non incassandole, stava asportando le piantine per difendere l’investimento iniziale che rischiava di perdere. Ecco perché si sarebbe trovato lì, quella notte, e scambiando Mirarchi per un nemico, non aveva esitato a sparargli. L’avvocato Vincenzo Forti, a cui venne affidata la difesa del vivaista, puntò a smontare l’accusa che verteva sulle tracce di polvere da sparo sugli indumenti attribuendole all’uso dei fertilizzanti chimici utilizzati dallo stesso nelle serre. Forti sottolineò che si trattava di una contaminazione dovuta alla professione del Girgenti e che anche “nei fertilizzanti sono presenti rame, zinco e nichel”, ribadendo che “è stata trovata una sola particella che potrebbe far presumere l’uso di armi da fuoco, mentre secondo la dottrina ne occorrono dieci”. Il legale evidenziò il comportamento discutibile degli investigatori che quando prelevarono gli indumenti di Girgenti dalla cesta dei panni sporchi, non utilizzarono guanti e mascherine, contaminando così le eventuali prove, Gli indumenti poi vennero messi nel portabagagli dell’auto dei carabinieri dove avrebbe potuto trovarsi anche polvere da sparo contenuta in armi e munizioni. Inspiegabili e misteriosi retroscena avvolgono questa vicenda dalle tinte ancora troppo fosche. Non è stata ancora trovata l’arma del delitto né eventuali altri complici e tutte le ipotesi restano ancora aperte. Intanto, nell’udienza preliminare, tenutasi ieri al Tribunale di Marsala davanti al gup Sara Quittino, Nicolò Girgenti è stato rinviato a giudizio per l’omicidio del maresciallo. Girgenti è accusato anche di detenzione e porto d’armi da fuoco e del tentato omicidio dell’appuntato Antonello Massimo Cammarata che si trovava assieme a Mirarchi al momento della sparatoria.