E’ stato descritto come un uomo violento, irascibile, Antonino Madone, il carpentiere di 60 anni che domenica scorsa, a Nubia, ha ucciso con una trentina di coltellate la moglie, Maria Manuguerra, anche lei sessantenne. Madone ha ammesso davanti al pubblico ministero Antonio Sgarella di averla uccisa, dopo l’ennesima discussione. Adesso sarà la giustizia a fare il suo corso; ciò che resta è lo sgomento e l’amarezza per l’ennesima vita spezzata. Nei primi otto mesi di quest’anno, in Italia ci sono stati 76 femminicidi, un vero bollettino da guerra al quale si aggiunge ora anche quella di una nostra conterranea; donne vittime di mariti, fidanzati, spasimanti violenti.
Oltre 40 anni di vita coniugale, 3 figli, Anna e Antonino sembravano agli occhi esterni una coppia perfetta. A casa, invece, pare che l’atmosfera fosse spesso incandescente, e non di rado ci sarebbero state anche botte ed insulti. Da un periodo di tempo, la donna, stanca di tenere tutto dentro, avrebbe parlato con qualcuno della sua vita tutt’altro che perfetta, decidendo di chiedere la separazione. Tuttavia i due continuavano a vivere vicini, a pochi metri di distanza l’uno dall’altra. Domenica scorsa l’ennesima discussione, la ferocia delle coltellate e il cuore di Maria ha smesso di battere, per sempre! La donna non ha fatto in tempo ad andare dai carabinieri a denunciare quell’uomo violento, ha rinviato quel momento e così non ha avuto scampo.
Dall’esterno viene da chiedersi come abbia fatto Maria, così come tante altre donne vittime di femminicidio, a sopportare una vita d’inferno, anni di violenza fisica e psicologica.
Abbiamo chiesto un parere al dott. Nicolò Renda, medico trapanese esperto di criminologia e collaboratore del professor Francesco Bruno, psichiatra e criminologo di fama internazionale.
“Credo che sopportare un marito violento possa dipendere da diversi fattori. Intanto rimanere in una relazione come quella che c’era tra la vittima e l’omicida, potrebbe dipendere dal fatto che loro avevano una determinata età, di conseguenza una volta c’era un maggiore “senso della famiglia” rispetto a quello di adesso. Il divorzio, soprattutto in una piccola comunità come Nubia, è considerato comunque un disonore, un problema sicuramente poco semplice da affrontare. Si preferisce quindi rimanere in casa e sopportare tutte le angherie del partner pur di non fare apparire o trapelare qualsiasi cosa al di fuori del nucleo familiare”.
Questa vicenda ha suscitato clamore mediatico ma c’è anche una sorta di “assuefazione” a notizie come questa”?
Nei piccoli centri c’è anche un atteggiamento ambivalente, perché da un lato si viene a creare un “caso” e quindi viene molto ingigantita la vicenda, anche se è una vicenda che ha un determinato peso e fa quindi un certo clamore; dall’altro c’è anche una sorta di indifferenza legata al fatto che i media riportano costantemente questi fatti di cronaca, che sono assolutamente aumentati negli ultimi anni. Sono incrementati perché c’è un problema essenziale: la persona non riesce più ad accettare i NO, quindi non si riescono più ad accettare le sconfitte in una società dove tutto è possibile, dove si può ottenere tutto, di conseguenza il rifiuto, la non accettazione, in un soggetto particolarmente “instabile”, può scatenare una tragedia. Anche se qualunque persona può essere in grado di determinare un omicidio in determinate circostanze; è falso infatti pensare che il malato di mente o la persona sana può essere la sola persona che può determinare un omicidio, anche una persona sana può, in un determinato momento, rendersi protagonista di un omicidio.
Secondo Lei quanto pesa, in generale, l’indifferenza di coloro che sapevano e non hanno aiutato le vittime a denunciare?
“Nei piccoli centri, in particolar modo, c’è una sorta di “omertà”, quindi tutti sanno ma nessuno parla. E’ un problema socioculturale, radicato soprattutto in certi contesti come il nostro, per cui ognuno cerca di risolvere i problemi all’interno del proprio focolare domestico. Anche se non è una scelta che io condivido, perché all’interno di una società non si è assolutamente isolati, appunto perché si è all’interno della società stessa, e quindi i rapporti con le persone sono fondamentali ed indispensabili”.
Bisogna sensibilizzare ulteriormente l’opinione pubblica sul tema del femminicidio?
“Sono necessarie le attività di sensibilizzazione sul problema per cercare di far capire alla gente che bisogna uscire dal muro di omertà e cercare di chiedere aiuto, se è necessario, e non rimanere in situazioni che diventano delle vere e proprie mine vaganti, in cui anche una scintilla può determinare una tragedia come quella che è successa. Di conseguenze si dovrebbe incrementare una campagna di sensibilizzazione sul tema della violenza di genere, supportare l’apertura di sportelli di ascolto cosicché le persone, in maniera anonima, possano riuscire ad aprirsi e cercare di valutare assieme agli esperti l’entità del problema. Anche se in una comunità piccola come quella di Nubia in cui è avvenuto l’omicidio, sarebbe difficile, per la mentalità ed il contesto culturale, che la gente chieda aiuto”.